La morte ti fa generoso

di Riccardo Cascioli
10-08-2011
La vicenda ha avuto un certo rilievo sulla stampa alcuni giorni fa: un uomo malato, in fase terminale, vende a un magnate del web l’esclusiva del momento della sua morte, per eutanasia in una clinica svizzera. Ovvio clamore e boom di accessi per assistere allo “spettacolo” della morte. La storia di Nikolai Ivanisovich, 62enne russo malato di tumore al cervello, che vende le immagini della propria morte al miliardario inglese Alki David, proprietario di un sito internet specializzato in immagini shock riprese in diretta, in realtà si è rivelata uno scherzo di pessimo gusto, un modo per fare pubblicità al sito. Lo stesso David ha spiegato che Ivanisovich è in realtà il capitano del suo yacht.
Ci sarebbe molto da dire su questo genere di “scherzi”, ma in questa sede ci interessa soprattutto rilevare cosa è accaduto intorno a questa notizia, ovvero il dibattito sull’eutanasia a cui essa ha dato adito: il diritto a “gestire” il momento del proprio trapasso, l’invadenza delle webcam, l’opportunità di certi “spettacoli”. Paginate di giornali dedicate al tema; un tema evidentemente così interessante da ignorare la realtà. Infatti, mentre l’annuncio del video è stato dato con grande evidenza, soltanto pochissimi, a verità svelata, hanno dato la notizia dell’inganno. Come dire, che la realtà è un optional, quello che contava davvero era far passare il messaggio dell’eutanasia.

Lo stesso Atki David in fondo lo ha detto, la scelta dell’argomento non era così a caso: “Dal punto di vista morale non ci trovo nulla di male”, ha dichiarato, lasciando intendere che se qualcuno si vuole offrire, lui è pronto a sborsare il dovuto. Probabilmente al silenzio sull’inganno ha contribuito anche il fatto che la vicenda è stata subito considerata verosimile. A nessuno è venuto il dubbio che si trattasse di una bufala, di una trovata pubblicitaria. E questo la dice lunga sulla cultura in cui siamo immersi.

Anche perché la vicenda ha segnato comunque una svolta importante nel dibattito sull’eutanasia. Il falso Ivanisovich infatti – nella storia così come era stata raccontata – aveva preso questa decisione perché i soldi ricavati dalla vendita delle immagini avrebbero assicurato il futuro della propria famiglia. In altre parole, tutta l’operazione si ammantava di un pericoloso altruismo. Non è la rivendicazione ideologica del proprio diritto all’autodeterminazione, è il pensiero per il futuro dei propri cari.

La cosa si presenta in un modo tale che rende difficile trovare le ragioni per dire che “cosa c’è di male”. Lo si è visto dai commenti letti sui giornali. In fondo, non è compito del buon padre di famiglia provvedere ai suoi cari? E non è normale e giusto che il padre che sa di avere i giorni contati cerchi di sistemare tutte le cose in modo da non lasciare problemi ai suoi eredi? E allora che male c’è se anche il momento estremo diventa l’occasione per sistemare tutti?

Già, che male c’è? Davanti a questa domanda, in effetti si fa fatica a trovare le ragioni adeguate, eppure nel nostro cuore percepiamo che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. C’è qualcosa in noi che, al di là dei ragionamenti, ci fa percepire che non siamo davanti a un atto di generosa paternità, ma a qualcosa di mostruoso. Ma cos’è questo qualcosa?

Anche se siamo anestetizzati dai media e dall’utilitarismo dominante, è la nostra stessa vita che rifiuta di essere ridotta a ciò che si può e si sa fare. C’è dentro di noi un grido che reagisce a questo potere che ci vuole soltanto merce, pezzi di un ingranaggio sociale destinati a essere gettati se mal concepiti o una volta usurati. La decisione di un qualsiasi Nikolai Ivanisovich che facesse così, non sarebbe un gesto di generosità e di previdenza paterna, non sarebbe la logica del buon padre di famiglia, sarebbe soltanto la cinica disperazione di chi non avendo dato valore alla vita pretende di dare un prezzo alla morte.

Ma la cosa più grave è che “il caso Ivanisovich”, come accennavamo, è l’esempio più clamoroso di una mentalità ormai affermata per cui il desiderio di vivere, l’anelito alla vita sarebbe una forma di egoismo. E togliere il disturbo quando non si è più efficienti, una forma di altruismo e senso civico. Proprio pochi giorni prima un commento apparso sul New York Times a firma di David Brooks teorizzava questa posizione, citando in tal senso anche una serie di importanti autori. Sappiamo quanto la questione del debito pubblico in queste settimane abbia occupato i pensieri degli americani; ebbene, il nostro autore spiega che una parte importante del deficit è dovuto proprio a questo tentativo di allungare la vita da malati. Secondo Brooks, il male del nostro tempo è quello di non saper guardare in faccia la morte, così spendiamo ingenti somme di denaro pubblico per prolungare di qualche giorno, settimana, mese o anno una vita che ormai non ha più senso perché condotta comunque in malattia.

Solo i pazienti di Alzheimer, dice Brooks, nel 2005 sono costati alle casse dello Stato 91 miliardi di dollari, e nel 2015 quella spesa sarà più che raddoppiata, a 189 miliardi, per poi raggiungere 1 milione di miliardi annui nel 2050. “Ovviamente – dice Brooks – non taglieremo i malati di Alzheimer mandandoli a morire da soli, su una collina. Mai useremo la coercizione per far morire anziani e malati. Ma è difficile pensare seriamente di ridurre la spesa sanitaria se le persone e le loro famiglie non cominciano ad affrontare la morte e i loro doveri verso i viventi”.

Chiaro? Non sarà lo Stato a decidere che dovete morire, siete voi che lo dovete capire da soli e togliere quel fardello che vieta una vita decente agli altri cittadini che ne hanno diritto. Ecco qua: chi pensa che la vita abbia un senso, che non viene meno con la malattia, l’inabilità e la vecchiaia; chi crede anzi che proprio lo sperimentare il limite e la sofferenza aggiungano qualcosa alla nostra esperienza di vita, è solo un egoista che campa sulle spalle degli altri. L’altruismo, la generosità non è spendersi per gli altri, magari assisterli e accompagnarli nella sofferenza e nella morte, no: è togliere il disturbo al momento giusto, quando non si è più in grado di essere economicamente utili alla società; o è convincere i malati e gli anziani a farlo.

Questo è il nuovo senso civico, questa è la “sostenibilità” della vita. Da rabbrividire.

http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-la-morte-ti-fa-generoso-2694.htm

La morte moderna

10-08-2011

Gentili redattori,

ho letto con molto piacere l’ottimo articolo odierno di Riccardo Cascioli sul caso Ivanisovich e sulla spinta sociale alla morte “generosa”. C’è un libro sull’argomento che merita essere ricordato, come piccolo antidoto alla barbarie incombente, perché si è ormai dimostrato profetico (è stato scritto nel 1978 e pubblicato in Italia soltanto nel 2008): La morte moderna, dello svedese Carl-Henning Wijkmark.

Si tratta della descrizione di un simposio a porte chiuse organizzato dal futuristico FATER (Comitato per la Fase Terminale della Vita Umana) in cui burocrati, economisti, sociologi e teologi si interrogano su come far accettare alla gente l’unico modo possibile per uscire dalla crisi finanziaria del welfare state svedese: morire. Pensionati, ammalati, bambini handicappati, tutti questi mangiatori inutili devono essere pietosamente tolti di mezzo. Ci si interroga sulle strategie comunicative, sulle possibili forme giuridiche; sull’aiuto che potrà dare il disciplinato clero luterano, sempre pronto a esortare all’obbedienza allo Stato nel nome di un dio remoto; sul modo più conveniente per far dimenticare una buona volta lo scomodo ricordo di Hitler con la sua “gnadentod”, e come farla finita con il ridicolo sospetto che la democrazia moderna, dopo aver sconfitto il nazismo, si stia trasformando sottopelle nella sua versione 2.0.

Quel che appare dalla lettura del libro di Wijkmark è che l’ideale in nome del quale gli inutili muoiono è come il gatto di Mao, quello di cui non importa il colore purché acchiappi i topi. Poco importa se sia meglio imporre per legge la morte ai 70 anni per tutti (tranne che per “le persone importanti”, categoria in cui – naturalmente – i relatori si ritengono compresi), oppure fare leva sulla “generosità” dell’individuo improduttivo, manipolandolo e facendolo sentire in colpa perché continua a vivere; poco importa se sia meglio arrivare al traguardo per via collettiva, cioè insistendo sulla prevalenza dell’interesse della società su quello dell’individuo ormai privo di valore sociale, oppure per via individuale (che poi è quella sponsorizzata da Repubblica e compagni), cioè presentando la morte come un atto di libertà individuale contro una società totalitaria che vuole imporre la vita.

Le verità è che queste strategie sociopolitiche, freddamente comparate dai funzionari del FATER, sono di per sé indifferenti, sono soltanto mezzi alternativi e funzionali all’identico fine: non importa se gli inutili moriranno per esemplare obbedienza all’obbligo statale o per libero esercizio della loro autodeterminazione “adeguatamente stimolata”, l’importante è che muoiano.

Si tratta insomma di un libro che trent’anni fa poteva sembrare fantasociologia, ma che adesso è drammaticamente realtà. L’ultima frase del testo, l’espressione con cui l’untuoso Moderatore del simposio congeda i suoi partecipanti, è a suo modo agghiacciante: “Avrete presto nostre notizie”. Mi pare che le abbiamo avute, considerato quello che scrive David Brooks (come riporta l’articolo di Cascioli); probabilmente dobbiamo aspettarci davvero, per il prossimo futuro. degli appelli alla nostra “generosità” per far risparmiare all’erario la nostra pensione. Già immagino la plausibile campagna pubblicitaria: quel cartello dello Zio Sam, che punta l’indice verso chi legge e dice “I want you”, con sotto una piccola aggiunta di una sola parola, “Dead”.

Claudio Schettino

Info su Giorgio

Sono un Infermiere, scrivo libri e da molti anni sono attivo nel volontariato pro life per quanto riguarda la difesa della vita dal concepimento al termine naturale. Sono presidente dell'associazione "Ora et Labora in difesa della vita"
Questa voce è stata pubblicata in Articolo di prova, Eutanasia. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento