Leggiamo l’articolo 3 comma 3 della legge: “Nella dichiarazione anticipata di trattamento può essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamento terapeutico in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale”
Questa “rinuncia” è un “orientamento”, che quindi il medico può non attuare, o ha un valore diverso? Il medico potrà – anzi: dovrà – effettuare i trattamenti terapeutici cui il dichiarante ha “rinunciato”?
Come non temere che, in sede di attuazione, la “rinuncia” sarà ritenuta cosa diversa da tutti gli altri “orientamenti”? Si tratta di una previsione separata da quella generale; inoltre il significato della parola “rinuncia” è molto più vicino alla espressione “rifiuto” piuttosto che a “orientamento”: “rinuncia” e “rifiuto” rispondono ad un’alternativa “secca”, sì o no, “questa terapia la faccio o non la faccio, la voglio o non la voglio”; “orientamento”, invece, comprende una scala di “grigi” (“vorrei essere curato solo con le erbe”, “non vorrei subire amputazioni se non strettamente necessarie” ecc.), rispetto alle quali è ben comprensibile che il medico mantenga la sua libertà e discrezionalità (“ti vorrei curare con le erbe, ma per questa patologia non ci sono medicinali adeguati” ecc.).
Ricordiamo il quadro iniziale: il medico può agire solo se è stato espresso il previo consenso del paziente al trattamento, altrimenti non può e non deve farlo; ecco: così come il rifiuto espresso dal paziente cosciente (o dai legali rappresentanti degli incapaci) rende il medico non legittimato ad intervenire, si sosterrà che la rinuncia esplicitata nella DAT con riferimento ad ogni trattamento terapeutico comporti la mancanza di legittimazione del medico ad intervenire.
Del resto nessuna norma sancisce esplicitamente l’inefficacia di DAT che contengano la “rinuncia” a tutti i trattamenti terapeutici, anche salvavita: non è certamente sufficiente a questo fine il disposto dell’articolo 4 comma 6 che stabilisce che “in condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la dichiarazione anticipata di trattamento non si applica”: la rinuncia ai trattamenti sanitari salvavita può non comportare affatto un “pericolo di vita immediato”, ma una morte conseguente ad un processo patologico non curato di una certa durata.
E infatti: l’articolo 2 afferma l’obbligo per il personale sanitario di operare avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita del paziente, ma solo “in assenza di una dichiarazione anticipata di trattamento”: quindi, quando le DAT vi sono, medici e infermieri non hanno più quest’obbligo …
Insomma: se il dichiarante avrà chiesto di essere lasciato morire rinunciando ad ogni trattamento terapeutico, il personale sanitario non potrà andare contro alle sue disposizioni, attivandone ugualmente: si sosterrà, infatti, che a quella rinuncia non è applicabile la disposizione secondo cui “il medico non può prendere in considerazione orientamenti volti comunque a cagionare la morte del paziente”.
In definitiva, anche con riguardo alle DAT, le modifiche apportate alla Camera non permettono di tranquillizzare chi è contrario all’eutanasia: non solo per il quadro piuttosto confuso che è uscito dai lavori parlamentari, ma anche perché quel meccanismo, che avrà il sigillo dello Stato, non potrà che facilitare spinte ulteriori (anche in questo caso, probabilmente di tipo giurisprudenziale) verso una vincolatività per i medici, sia del rifiuto di terapie salvavita, sia della rinuncia all’alimentazione e idratazione artificiale.
Perché il mondo prolife è contrario a questi effetti? Per due motivi: essi sanciscono il principio della disponibilità della vita (di fatto, al di là delle proclamazioni di principio); inoltre il meccanismo creato non garantisce nessuna libertà e nessuna informazione effettive a colui che, in stato di completo benessere o, al contrario, a colui che è gravato dalla sensazione di “essere di troppo”, si troveranno a sottoscrivere un documento (magari dattiloscritto) senza sapere cosa succederà in futuro e senza comprendere fino in fondo il contenuto della loro dichiarazione.
Pensate davvero che la legge, nel disporre che la DAT sia firmata “in stato di piena capacità di intendere e di volere e di compiuta informazione medico-clinica”, preveda qualche meccanismo per garantire che avvenga davvero così?
Giacomo Rocchi