La lezione degli Usa
dove le DAT fecero la loro prima comparsa nel lontano 1967
di Tommaso Scandroglio su ‘La Bussola quotidiana’25 Febbraio 2011
Ma queste Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT) di cui tanto si parla, se un giorno entrassero di uso comune anche nel nostro Paese funzionerebbero? Oppure sono uno strumento pericoloso che contraddice il tanto amato principio di autodeterminazione?
Una risposta indiretta a queste domande può venire dall’esperienza degli Stati Uniti, dove le DAT fecero la loro prima comparsa nel lontano 1967. Quindi la competenza dei medici statunitensi in questo settore può vantare più di 40 anni di esperienza. Un pool di esperti – Puccetti, Del Poggetto, Castigliola, Di Pietro – ha pensato bene di verificare se le DAT made in Usa, che da loro si chiamano living will, siano efficaci oppure no. Per far ciò i nostri esperti sono andati a spulciarsi ben 690 articoli scientifici che parlano di DAT.
Prima di illustrare gli esiti di questa ricerca ricordiamo cosa sono queste dichiarazioni anticipate. Si tratta di un documento in cui un soggetto indica i trattamenti sanitari a cui vuole o non vuole essere sottoposto nel caso in cui insorgesse una grave patologia e non fosse più capace di esprimere un consenso valido, cioè non fosse più capace di intendere e volere. Nelle DAT si può altresì indicare il nome del fiduciario che darà concreta attuazione alle volontà espresse. Ma ora andiamo a scoprire se queste DAT sono utili o dannose per il paziente che non è più cosciente.
Le DAT non esprimono un consenso attuale.
La domanda di fondo che ci dobbiamo porre è la seguente: le volontà espresse nelle DAT sono quelle che il paziente esprimerebbe se fosse cosciente oppure c’è il fondato sospetto che potrebbe aver cambiato idea? La risposta giusta è la seconda. Il 30-40% di pazienti colpiti da grave patologia cambia idea rispetto alle cure a cui vorrebbe o non vorrebbe essere sottoposto nell’arco temporale che parte dal momento in cui è insorta la malattia fino a 7 anni dopo. I sostenitori delle DAT rispondono che ciò non fa difficoltà perché le DAT possono anch’esse mutare contenuto con il mutare delle decisioni dell’estensore. Purtroppo c’è un problema. Nell’80% dei casi i pazienti non si rendono conto che ciò che loro pensano è diverso da ciò che è scritto nelle DAT: cioè non si rendono conto di aver cambiato idea. Ma se non ti sei accorto di aver cambiato idea mai deciderai di cambiare il contenuto delle DAT.
Oltre a ciò i ricercatori evidenziano che la pigrizia nel mettere mano alle DAT gioco un ruolo significativo. A tutto ciò si aggiunge il fatto che c’è un intuibile disagio psicologico nel voler riscrivere un documento che può determinare la nostra morte. E quindi si preferisce rimandare a domani e domani ancora. Ma forse domani sarò in coma e non potrò più modificare le mie DAT. In buona sostanza queste dichiarazioni congelano le volontà del paziente nel passato, non riuscendo ad attualizzarle. In un passato poi in cui nella maggior parte dei casi si era in salute. E qui c’è un altro inciampo: una cosa è decidere della propria sorte quando si è sani, un’altra quando sai che stai per morire, frangente in cui nella maggior parte dei casi ci si aggrappa con tutte le proprie forze alla vita. L’eutanasia viene chiesta dai sani, non dai moribondi.
La sfera di cristallo.
Con le dichiarazioni anticipate decido oggi per il domani, quindi io estensore devo aver un grande capacità predittiva in ordine a tutte le patologie serie o letali possibili e immaginabili e a tutte le relative cure a cui verrò sottoposto nel futuro. Un’impresa davvero impossibile. Oltre a ciò alcuni trattamenti che si vogliono rifiutare perché considerati inefficaci nell’oggi, in futuro con il progresso della tecnica potrebbero diventare efficaci. Si obietta: che si preveda l’estensione delle DAT solo a patologia in corso. Controbiezione: se decidi quando sei malato (es. tumore, Aids) la tua libertà è fortemente condizionata dal dolore e dalla paura, sei schiavo della sofferenza e non puoi decidere lucidamente sul tuo miglior bene. Sotto tortura non si è liberi.
I tecnicismi.
C’è poi il problema della difficoltà di comprendere esattamente i termini tecnici da parte degli estensori delle DAT. In un’indagine inglese è emerso che il 50% delle persone intervistate non conosce la differenza tra arresto cardiaco e infarto. Più del 97% ha idee erronee sull’efficacia della rianimazione cardiopolmonare (in genere è sovrastimata). Nel 50% dei casi in buona sostanza il paziente ha preso Roma per Toma, cioè non ha compreso esattamente tutti i termini tecnici e le conseguenze cliniche del rifiuto di certi trattamenti. Senza dimenticare che le conseguenze dell’interruzione di certe terapie vengono discusse con il medico solo in un caso su tre. I ricercatori poi hanno notato un dato curioso e insieme preoccupante: le percentuali di coloro i quali ritengono che la rianimazione sia miracolosa è molto simile alla percentuale dei successi di tali pratiche nelle serie televisive quali ER.
L’intervento del medico non aiuta.
Si risolve tutto redigendo le DAT con l’assistenza di un medico? Pare di no. Innanzitutto si è scoperto che il tempo medio di colloquio con il medico è di 5 minuti e 40 secondi: eh sì, meno di sei minuti per decidere della propria vita. Poi l’intervento del medico in realtà complica la situazione e di certo non la semplifica. Infatti è stato messo in evidenza che le modalità di informazione influiscono moltissimo sul contenuto delle DAT: in buona sostanza si corre il rischio che sia il medico a scrivere le Dat e non il diretto interessato. Quasi nell’80% dei casi infatti i pazienti cambiano idea a seconda di come ricevono le informazioni: stesse informazioni producono diverse decisioni se comunicate in modalità differenti. Senza poi contare che se le DAT vengono redatte in uno stato depressivo, tipico di chi ha una prognosi infausta, le volontà eutanasiche schizzano verso l’alto. Insomma è comprensibile che siamo tutti molto suggestionabili dagli altri e dell’ambiente se c’è di mezzo la nostra salute.
Il fiduciario da sfiduciare.
Di fronte a tutti questi ostacoli ci si appella alla figura del fiduciario, credendo che grazie a lui si possa superare ogni difficoltà. Ma anche in questo caso le cose non stanno così. A detta degli stessi estensori delle DAT il fiduciario, quasi in un caso su tre, ha la tendenza ad interpretare in modo erroneo le volontà espresse nelle DAT. Questa percentuale di azzeccare gli intenti dell’estensore è pari a quella che abbiamo tirando a sorte. Così il ricercatore Luois Collins: “La comprensione da parte del fiduciario delle preferenze del paziente è risultata solo lievemente migliore del tirare a caso”.
Il fiduciario poi tende a dare l’assenso a staccare la spina con più facilità quanto più il paziente è grave, al di là di ciò che c’è scritto nelle DAT. Inoltre si è visto che il fiduciario in merito ai trattamenti di sostentamento vitale più che rispettare le volontà del paziente tende a proiettare su di lui i suoi desideri, insomma inconsapevolmente è portato a sostituirsi a lui. Inoltre la pressione psicologica dei parenti e amici del paziente gioca un ruolo determinante nelle decisioni del fiduciario. Senza poi contare che se c’è di mezzo un’eredità la tentazione di veder accorciate le sofferenze del moribondo grazie a pratiche eutanasiche è molto alta.
Pollice verso da parte dei medici.
I medici si fidano delle DAT? No per nulla. Infatti nella ultra liberale Danimarca i registri delle DAT vengono consultati “sempre” solo nel 1% dei casi e “spesso” nell’11%. Perché tanta diffidenza? Per i seguenti motivi. Primo: difficoltà ad applicare alla reale situazione clinica del paziente i contenuti inevitabilmente vaghi delle DAT. In una ricerca si è messo in evidenza ad esempio che solo nel 3,9% dei casi le istruzioni presenti nelle DAT risultarono appropriate alla situazione reale del malato. Secondo: la tendenza dei sanitari ad escludere che non si possa più tentare niente per salvare il paziente, nonostante le indicazioni di segno contrario delle DAT. Terzo: la grande difficoltà di trovare tempestivamente i fiduciari.
Non ci credono nemmeno i pazienti.
Se poi chiediamo agli estensori delle DAT: ma vuoi davvero che le tue volontà siano rispettate letteralmente oppure preferisci che ci sia una certa libertà di manovra da parte di familiari e medici? Tra il 60 e quasi il 90% dei casi nelle DAT è previsto che medici e familiari non siano ammanettati a ciò che c’è scritto in questo documento, preferendo che tali soggetti agiscano liberamente, senza molti vincoli e secondo coscienza. Segno evidente questo che gli stessi diretti interessati hanno poca fiducia nelle dichiarazioni anticipate.
Verso l’abbandono terapeutico.
Le DAT soprattutto per i pazienti anziani incentivano poi una diminuzione dell’ospedalizzazione. In buona sostanza se hai redatto le DAT è più probabile che ti ricovereranno nemmeno. Se invece hai fortuna e vieni ricoverato, ad esempio per infarto o ictus, e nel caso in cui il medico decidesse di seguire le DAT il risultato è quasi l’abbandono terapeutico portando a morte chi si sarebbero potuto salvare, senza tra l’altro riportare conseguenze gravi sul piano della propria salute.
Concludendo.
Chiudiamo cedendo la parola prima ad una task force dell’American Academy of Neurology che ha steso le linee guida per la terapia dei pazienti con SLA, sindrome da cui era affetto Pier Giorgio Welby: “Non sono state identificate prove che le DAT migliorino la qualità di vita in alcuna malattia”. Ed infine al ricercatore James Tulsky: “Dobbiamo superare le direttive anticipate per soddisfare veramente i bisogni dei pazienti assumendo decisioni difficili”.